I Costa – padre e figli- hanno fatto più di quanto ha narrato lo scrittore della “Senia del Brigantino” per ricordare Ennio Salvo D’Andria: chi si avventura, a primavera iniziata, sul sentiero di sabbia in mezzo ai cannici non solo potrà leggere i versi della poesia con la quale Malamura magnificava “San Giorgio” ma potrà bearsi ammirando la fioritura “petalosa” delle salse tamerici sotto le cui fronde è stato collocato il cippo dedicato al poeta scrittore di San Giorgio…un giorno come la Sicilia narrata nel romanzo dispersosi con l’alluvione di Firenze.
Com’era un giorno il Brigantino, ai tempi del Malamura, l’anno restituito i Costa sottraendolo all’oblio della desolazione piantando le salse tamerici che si tingono a primavera di rosa vaporosa. Sulla spiaggia aperta i cannici trapiantati sulla duna hanno rubato ai refoli di vento le folate di sabbia sulle quali è tornato a crescere il giglio di mare, la calcatreppola e il papavero cornuto. Il paesaggio primaverile, tinto di rosa vaporosa, è completamente diverso da quello estivo che, sebbene brullo e riarso, conserva le caratteristiche tonalità del giallo diffuso (calcatreppola e bacicci) con puntinature di rosso papavero. I colori che abbiamo visto alla mostra dei pittori del Brigantino (Spadaro, Frieling, D’Angelo) organizzata alla Pro Loco nell’estate del 2015.
Oltre, finito il sentiero di sabbia tra siepi di bosso e bacicci, si vede e si sente l’ode barbara dei nuovi arrivati che si cinturano contro le risacche dell’inverno innalzando terrapieni di massi ciclopici, cancellando gli ultimi segni di primavere di alberi e flora spontanea che cresceva accanto alla senia divelta dei suoi massi per innalzare un muro a vietare l’ingresso su quella battigia millenaria che portava alla Petralonga e al Brigantino, lo scoglio sperso nell’azzurro del mare.
Malamura se n’era andato prima che il mare gli prendesse la sua creatura, il social club Brigantino come glielo aveva battezzato Nerino, abbandonato anche dai pittori perché c’era poco ormai da dipingere in quel posto antropizzato dagli uomini che potesse ispirarli. La rabbia di Malamura era quella di non avere più voce per gridare contro i Cuantiabbusi «Il suo dio mi ha punito togliendomi la voce!» soleva dire a Nerino. «Per questo bisognerebbe averne uno, potresti pregarlo perché te la restituisca!» Rispondeva Nerino per consolarlo. Il suo alunno Costa dai tempi del liceo sognava di dedicargli una lapide che lo ricordasse come lo scrittore di “Sicilia, un giorno” e “ I picciotti di Gibilrossa”. Una lapide scolpita su di un cippo collocato tra la senia e il brigantino, di cui voleva riqualificare i luoghi a ricordo del maestro con le sue dune di sabbia trattenute dai bacicci e dai cannici. Un viale sterrato che cancellasse l’asfalto di catrame dei Cuantiabbusi, alberato di salse tamerici dal portamento leggero e con la fioritura delle fronde spruzzata di rosa vaporosa. Lo seppellirono all’Archittu, il prato in collina che guarda il mare del golfo con la vista del brigantino. Una lapide, all’ingresso, ricorda il giorno in cui lui guidò un comitato di pescatori che aveva deciso di dare sepoltura abusiva al cadavere del congiunto nelle terre dei Ruffo della Floresta e si fece il carcere per essere stato il capopolo. Le donne a guardia del cadavere che codarde non erano sfidarono i carabinieri «Noi di qua non ci alzeremo fino a quando la morta non sarà diventata cadavere!» L’impresa eroica con l’epico gesto delle donne segnò il definitivo distacco da Ciappe di Tono. ( La senia del Brigantino, pg 292)