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"Il grosso sasso " detto Rocca di San Giorgio (F.Omodei)

“Il grosso sasso ” detto Rocca di San Giorgio (F.Omodei)

«E seguendo per la marina de Patte per poco spazio, si ritrova la bocca del fiume, che il verno scende dalla montagna di Giusa sopra Patte; ed indi per spazio di due piccole miglia s’arriva alla torre cognominata di S. Giorgio, dove molto lungi in quei monti si scorge un grosso sasso detto dà paesani la Rocca di San Giorgio.»

(Descrizione della Sicilia nel sc XVI per messer Giulio Filoteo Omodei pg 107, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia. Raccolta di opere inedite e rare (sc xv-xix) a cura di Gioacchino Di Marzo. Vol xxiv Palermo 1877;” Manoscritto e rari” Qq G 71 Biblioteca comunale di Palermo.)

L’Omodei è un siciliano di Castiglione di Sicilia , storico e letterato, scrive la sua Historia di Sicilia  a metà ‘500. Il manoscritto conservato alla biblioteca di Palermo fu pubblicato solo nell’800 ad opera del solito Gioacchino Di Marzo. Il suo genere letterario –  Dizionario biografico Treccani – si inserisce a pieno titolo nel filone della cultura didascalica umanistica.

La descrizione dei luoghi e toponomastica coincide con la cartografia del tempo (Magini e Senex) e quel che più importa è ripresa nella Storia delle tradizioni popolari siciliane (Pitrè).

Quindi la Rocca di San Giorgio non ancora spezzata da un fulmine – oppure secondo una versione, tramandata in loco, spezzata da una carica di polvere pirica – era il segno iconico, l’ideogramma del porto-scaro di San Giorgio. Torre e Rocca erano gli elementi topografici e cartografici, ufficialmente certificati come rappresentazione e immagine del paesaggio e come tali assunti anche dai paesani.

Petralonga, lato est.

Petralonga, lato est.

Il grosso sasso, dai paesani chiamato Rocca di San Giorgio, entra ufficialmente nelle fonti letterarie che circoscrivono l’areale di San Giorgio. Il Pitrè l’accoglie nella sua Bblioteca di Tradizioni popolari “Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano” (vol.II) citando la versione di Salomone-Marino (Leggende, n° XV) La trama riassunta dal Pitrè racconta della “moglie di un fattore entrata in troppa dimestichezza con un pescatore di Patti a nome Nino,diviene incinta, e si sgrava d’un

Petralonga, lato ovest

Petralonga, lato ovest

bambino che vuol battezzato dall’amante. Afflitto per la nuova difficile posizione creatagli dal comparatico, Nino vuol partire, ma la donna lo alletta a rimanere: ed entrambi si propongono di continuare, nascosto al marito, la illecita tresca scendendo ella da una scorciatoia alla spiaggia a trovar l’amato compare. Ma san Giovanni non può soffrire tanta offesa, ed un bel giorno preso con se un angelo scende dal Cielo e sotto figura di vecchio pellegrino va per la via che conduce alla marina, a troncare alla triste donna il passo del delitto. Ella scende, come di solito, a trovar Nino; il pellegrino la invita a tornare indietro, a smettere il peccato. La Rosa ( nome della comare) prende a sbottoneggiarlo, e corre agli amorosi abbracciamenti. Sono essi, gli amanti, sulla sabbia in luogo recondito, quando san Giovanni inorridito dal sacrilegio scuote la vicina rocca, e ne fa distaccare una balza, con la quale scaccia i due peccatori. Il sangue vien fuori da tutte le parti tingendo in rosso l’arena della spiaggia; la gente, all’orribil fracasso, accorre in folla tremante dalla paura. Di sotto alla balza esce ora un fetore pestilenziale, da cui tiensi lontano il pescatore di Capo Feto; ed i pesci della marina tutti muoiono come avvelenati.”

La storia del marinaro di Capo Feto, riportata dal Pitrè in Usi e Costumi del popolo siciliano e raccolta nelle leggende del Salomone-Marino, non è solo una leggenda popolare sul comparatico tradito, ma è anche rappresentazione immaginifica del mondo che aiutava l’uomo a mediare il suo rapporto con la natura, esorcizzando le forze del male. Mettendo in campo il san Giovanni.

Le versioni del marinaro di Capo Feto sono più di una. Le due versioni classiche, quella del Salomone in versi e l’altra di Luigi Natoli in prosa, oltre ad essere dei documenti letterari, costituiscono un documento cartografico: attorno al toponimo di capo Feto, l’elemento fantastico si fonde con quello storico-geografico, omologandosi a vicenda. Il marinaro di capo Feto nient’altri è che il capo raisi della tonnara di San Giorgio.

Non è il Capo Feto di una generica Sicilia ma quello del capo  Fetenia, così come viene descritto dal conte D’Amico nel, “Corso e Cammino dei tonni”(1816).

Nel 1978 Nino Falcone, editore Pungitopo, pubblica nell’Almanacco siciliano dell’annata “A storia da Fitenti” . Nella nota  l’editore scrive “più che una variante del canto popolare Lu marinaru di capu Fetu raccolto da Salamone Marino, questo canto, sentito da Salvatore Grifò, illetterato del contado di Acquasanta, morto una ventina di anni fa, conserva lo stesso episodio leggendario ma con qualche particolare nuovo, ed è da considerare un canto a sé stante.” Contesto e areale sono quello messinese, anzi pattese, visceralmente sangiorgioto.

E infatti “A storia da Fitenti” ha toni e accenti meno moralistici ed un andamento del verso più spumeggiante. Nella versione pattese, il pescatore della Marina di Patti diventa “u capu rrassu a tonnara di Sagnoggi”. Il testo ancora una volta conferma le notizie topografiche e toponomastiche della “tonnara sive mari Santi Georgi”. La toponomastica trova una sua conferma nella cartografia. Antonio Magini (1555-1617) e Jhon Senex (1708) riportano i due toponimi: San Giorgio e Torre di San Giorgio.

L’ideogramma cinquecentesco torna in quello moderno di “Petralonga” che non va confuso con lo scoglio a mare denominato “Brigantino”. Un battesimo letterario conferitogli da Malamura, lo scrittore Ennio Salvo D’Andria di “Sicilia, un giorno”.